Cerchiamo di essere lucidi, ragioniamo (e non facciamoci prendere dal panico)

Quando si parla di intelligenza artificiale in ambito narrativo, subito si manifestano gli spettri di uno scenario apocalittico nel quale intere schiere di copywriter e autrici/autori vengono spazzati via da macchine computazionali in grado di creare testi straordinariamente coinvolgenti, pertinenti ed efficaci. Le penultime teorie su come funziona la mente umana sono inesorabilmente di impostazione fisiologica: è proprio così, siamo un ammasso di chimica e di reazioni elettriche, che danno vita di volta in volta ad emozioni o intuizioni, ad idee o arte! E se la cosiddetta intelligenza artificiale fosse in grado di replicare queste dinamiche chimico fisiche, e dunque fisiologiche, per dare forma a pensieri e idee del tutto simili a quelle umane? È il dubbio che non fa dormire la notte tutti i miei colleghi che con la tastiera ci campano regolarmente (o quasi).

Lasciamo aperta questa domanda, dal momento che nessuno dei grandi artefici di questa rivoluzione è in grado di dare una risposta certa: lo dimostra la lettera aperta di scienziati e imprenditori come Elon Musk ad aziende e governi, per fermare lo sviluppo di queste tecnologie per almeno sei mesi, il tempo di riflettere su modalità e regolamentazioni.

Respons-abilità o Domand-abilità?

Una delle panzane che ci vengono raccontate, come chiave di risoluzione a tutte le angosce generate dall’ingresso dell’intelligenza artificiale nelle nostre vite, è che l’AI sarà capace di creare sempre nuovi posti di lavoro, purché siamo in grado di reindirizzare le competenze di quelle figure che, inevitabilmente, verranno spazzate via dal suo progressivo incunearsi nelle attività lavorative quotidiane.

Che io ne parli da storyteller è legittimo, dal momento che la AI si sta candidando prepotentemente (nel vero senso della parola) alla creazione di contenuti di cui le aziende hanno sempre più bisogno per mantenere il proprio posizionamento nel mercato e presso il proprio pubblico di riferimento.

Alla base di questo assunto (che ho giudicato “Panzana”, avete capito bene), c’è il fatto che non sia più necessario individuare soluzioni ed esprimere idee. Quanto piuttosto sviluppare l’abilità di formulare domande (le cosiddette “query”).

Spieghiamo meglio di che si tratta: il linguaggio informatico (su cui ancora per poco si basa la A.I.) viene indirizzato dalle richieste che facciamo al sistema. Più queste sono precise, pertinenti, orientate, più la risposta sarà puntuale, risolutiva, soddisfacente.

Non avremo più bisogno, è l’assunto dei sacerdoti dell’AI che si atteggiano come sempre da profeti, di autori, scrittori, copywriter, perché lo scritto, il contenuto, verrà fornito dai cosiddetti algoritmi. Ma sarà di fondamentale importanza elevare la competenza di formulare quesiti ai quali le macchine potranno rispondere.

Al di là del fatto che questo assunto mi convince meno di niente, perché l’abilità di formulare domande attiene alla profonda conoscenza del contesto, e quindi alla sua interpretazione indirizzante, staremo a vedere come faremo a sviluppare questa “nuova competenza”: invece di abili compositori di concetti e formulatori di interpretazioni del reale, ci troveremo davanti milioni di “pensatori Rodiniani” che cercano domande. Suggestivo, quanto noioso, non vi pare?

Tra milioni di domande, trovo molto interessante e accogliente dedicarsi alla formulazione di risposte. E qui arriviamo al tema della responsabilità. Ho sempre amato la possibilità di scomporre questa parola nelle due parti “Respons” e “Abilità”: ovvero l’abilità di dare delle risposte. Figuriamoci se questa abilità dovesse trasformarsi nella “capacità di formulare domande”.

Da storyteller assisto con gusto al proliferare di progetti di narrazione, alla televisione, certo, ma soprattutto nel mondo digitale, da parte di creatori che imbastiscono trame per decifrare scampoli di realtà. Questo è un fenomeno che va salutato con gioia, perché significa che, come nello yogurt, c’è vita nel genere umano. Se ci soffermiamo all’analisi della qualità di queste narrazioni, beh, qui cominciano a sorgere legittimi dubbi: tutti raccontano di tutto in un citarsi a vicenda senza nemmeno riportare le fonti.

Martin Luther King

Martin Luther King andava a braccio?

Piccola divagazione: recentemente ho visto un monologo in TV di uno storyteller da salotto televisivo sul discorso di Martin Luther King “I have a dream”. Suggestivo come descrivesse la decisione di MLK di andare a braccio, stracciando la traccia scritta e inventandosi di sana pianta il discorso “I Have a Dream”. La sera successiva vado su Prime tv e metto “AIR”, il film su Nike e Michael Jordan. A parte il film di bassissimo profilo narrativo (se ne perde di tempo cercando cose interessanti in tv), all’interno del film viene descritta quella storia di Martin Luther King con le stesse parole. Inutile chiedersi chi abbia preso spunto da chi. Sono andato sul web a rivedermi il documento originale del 1963 al Washington memorial. E non ho proprio avuto la percezione di un discorso a braccio. Un discorso intenso, travolgente. Senza un’esitazione, con le pause giuste, cn le intenzioni perfette. Un discorso progettato da dio. Come vorrei che tutti i miei allievi del corso “Le abilità di comunicare” che conduco insieme a Roberta Federici, facessero. Non un discorso a braccio. Parliamone…

Vuoi vedere che affidare all’AI elaborazioni elementari su tematiche innocue che raccolgono informazioni varie e le ripropongono ben ordinate, non è poi una prassi da condannare?

La responsabilità non è forse una virtù cui abbiamo rinunciato ben prima che arrivasse la famigerata intelligenza artificiale?

Come vedete trattasi di una domanda, che è anche una risposta…

La prassi: scrive tutto Chat GPT e poi noi umani gli correggiamo le bozze…

Da consulente per la comunicazione, aiuto imprese e organizzazioni ad articolare percorsi di contenuto coerenti con il loro posizionamento, attività sempre più necessaria in un contesto di grande rumore di fondo e di affollata proposta di prodotti e servizi. In uno di questi ingaggi, mi sono trovato a valutare contenuti realizzati dall’algoritmo e solo successivamente rivisti e corretti da una mente umana, al solo scopo di non fare incappare il contenuto, una volta pubblicato, nel controllo di un secondo algoritmo, avente l’unico scopo di verificare se uno scritto è stato generato da una AI oppure no.

In pratica il social media manager si faceva scrivere i contenuti da Chat GPT e poi li modificava in alcune parti per passare il controllo

È a questo punto che ho deciso di scrivere questo articolo: occorre che tutti noi narratori d’impresa riflettiamo sul rischio di diventare dei correttori di bozze dei motori computazionali, al solo scopo di simulare l’origine umana del contenuto stesso… in un contesto nel quale il contenuto viene controllato a un altro algoritmo (ancora ancora fosse stato un umano a tirarci le orecchie…). Questi controllori nascono per uno scopo nobile: individuare quali sono i testi generati dall’AI e quali sono – come diceva la mia prof di italiano – “farina del tuo sacco”. Uno di questi è corrector.app, una piattaforma on line che determina se un testo è stato generato o meno da un algoritmo…

Ciò detto, penso al senso del lavoro dello scrittore, del creatore di contenuti o chiamatelo come vi pare, al futuro della nostra capacità di rappresentare la realtà e offrirne uno schema ordinato secondo le nostre intenzioni o visioni del mondo… Abbiamo deciso di rinunciare all’analisi e dedicare il nostro tempo a manipolare (illusi!) il mondo di google? (su questo argomento leggiamoci questa pagina illuminante, per chi ha tempo e voglia…

Conclusioni: se hai qualcosa da dire, accomodati. Ma ricorda che la preparazione, le fonti, l’indagine, non possono essere delegate.

Quantomeno per ragioni anagrafiche, non sono un grande creatore di contenuti digitali per i social, un argomento che non trovo appassionante. Ho dedicato buona parte della mia carriera a ragionare sulla necessità che hanno le imprese di raccontare la propria visione e interpretazione del mondo. Sulla necessità di attribuire ad esse la responsabilità del cambiamento in nome di una vera sostenibilità. È questo il senso di una narrazione d’impresa: far comprendere che il “purpose” di un’azienda non è l’ennesima categoria del marketing, e che ha connessioni intime con i motivi per i quali i suoi collaboratori (e consulenti) si alzano ogni mattina per perseguire gli stessi obiettivi.

Affidare questo scopo strategico (comunicare gli obiettivi alti dell’impresa) ad algoritmi, per quanto ben informati di richieste ottimamente formulate , non sarà la soluzione.

Le domande cui ci interessa dare risposta, hanno bisogno di ambizioni, moventi, sogni da realizzare. Quei sogni che ci permetteranno di disegnare un futuro diverso, non dominato da logiche di profitto.

È arrivato il momento di dare un nome e un cognome a tutti gli stakeholder del mondo. E sono quasi nove miliardi…

Questo articolo non è stato scritto da un algoritmo. Evitatevi il tempo perso di verificarlo 😉

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