Avere una bella voce e fare ogni tanto qualche lavoro non ti fa diventare un host di successo!

Ricordo benissimo quel periodo. Era il 2006, avevo appena abbandonato l’esperienza imprenditoriale in un’agenzia di comunicazione. Ero ritornato io, me stesso e il sottoscritto (pessima traduzione di me,myself&I), potendo contare unicamente sulla mia voce e il mestiere di doppiatore e speaker pubblicitario come principale strumento di sostentamento. 

Tanto il tempo libero a casa, con i figli che ti girano attorno, e la domanda fatidica che ronza nel cervello da mattina a sera: e adesso?

Mi ero ritrovato a non aver spinto abbastanza l’acceleratore sul lavoro di doppiatore e come voice over pubblicitario ero già abbastanza conosciuto. Restava un nodo cruciale da sciogliere: il tempo libero tra un lavoro e l’altro. Non avevo idea di come impiegarlo. Non ditemi che a voi non è mai capitato di sentirvi un tantino in colpa nel non avere niente da fare per intere giornate e di non riuscire a pianificare attività di svago proprio per questo stato d’animo. Aggiungeteci che sicuramente, nel momento in cui poggiate piede in un aeroporto per una fuga di qualche giorno, riceverete la telefonata del lavoro della vita che non potete assolutamente perdere… e così ve ne state a casa o al massimo in palestra a fissare lo smartphone… Già capitato. È la legge di Murphy.

Di quegli anni ricordo vividamente il tempo impiegato davanti al computer a fare ricerche su internet, a guardare video interviste, raccogliere appunti, alla ricerca di una storia da raccontare alla radio. Provenendo da quel mondo (dai primi anni dell’adolescenza sono stato una voce della radio negli anni ’80 e ‘90) avevo legittime ambizioni di ritornare a esprimermi sempre attraverso un microfono, ma questa volta non come voiceover talent, bensì come autore o conduttore, o intrattenitore. Restava un disagio dal quale mi sono schiodato solo dopo un lungo periodo di riflessione: non ero più capace né disponibile all’intrattenimento radiofonico. Lo ritenevo uno stadio della mia vita già percorso e dunque poco interessante. Avevo commentato la quotidianità per tanti anni, con un’entusiasmo inesauribile, ogni mattina dalle 7.00 alle 10.00 sia su Radio Peter Flowers che su Radio Monte Stella, e 101 Network. Me ne accorsi dopo un provino a R101 che gentilmente mi mise a disposizione lo studio per fare dei test con il mio amico Roger Mantovani. Risultato pietoso. Dovevo avvicinarmi perciò alla radio i un una modalità diversa. Dovevo scrivere.

Ve l’ho fatta un po’ lunga per giustificare un avvicinamento alla scrittura che, per una voce pubblicitaria come me, non era affatto scontato. 

Pomeriggi trascorsi a scrivere, tentativi di raccogliere le idee e trasformarle in format nei quali raccontare la “mia cosa”.

È nata così la passione per la scrittura, e con essa la consapevolezza di dover fare molta strada per scrivere per il medium radiofonico che, in genere, ti perdona molto più di quanto non faccia un testo scritto tout court, ovvero un testo che poi viene stampato. Quella “roba” lì resta, con tutti i suoi difetti e le sue imprecisioni. Un testo alla radio passa e va, e se qualcuno ti eccepisce qualcosa puoi sempre rettificare, correggere, quantomeno scusarti…

È nato così Destini Incrociati, il format che mi ha permesso di cambiare il mio baricentro professionale e fare un salto di qualità in consapevolezza e capacità. Perché, oltre alla voce televisiva che avevo allenato in anni e anni di lavoro, entrava in gioco la capacità di produrre un progetto e unire insieme i pezzi che servivano per mandarlo in onda. Destini è stato per me una grande palestra di esperienze, e la verifica sul campo che scrivere e interpretare ciò che scrivi sia una delle soddisfazioni più grandi che un professionista della comunicazione si possa togliere…

Restava il rapporto con il microfono, il minimo comun denominatore cui un doppiatore e voce della pubblicità non potrebbe mai rinunciare.

Ognuno ha diritto di scrivere le sue cose. Ma da qui a definirsi autori… Elogio di una professione sotto traccia

Molti colleghi doppiatori ambiscono allo stesso traguardo. È un percorso complicato e faticoso, soprattutto per degli esteti come noi, che diamo tutto noi stessi nel cortissimo raggio di una prestazione al microfono di pochi minuti. Scrivere è invece qualcosa di elaborato, che ti impone di fare e rifare e ancora modificare e ancora riprendere da capo, giacché – all’inizio almeno – la certezza che combinerai qualcosa di buono e soprattutto il come farlo, sono propri di un altro stato di realtà.

Pertanto il divario tra un elogio per una performance come voce televisiva e la faticaccia di scrivere quattro cose che stiano miseramente in piedi, è talmente elevato da scoraggiare i più. Non sono qui a raccontare segreti del mestiere perché ancora non ho metabolizzato come sia riuscito a ottenere i risultati che ho ottenuto. Voglio solo rendere omaggio a una professione che richiede sensibilità, costanza, capacità di accettare il fallimento e una preparazione raramente riconosciuta dal mercato: il mestiere dell’autore radiofonico.

A questo proposito ho deciso per questo articolo di dare voce a un autore che stimo moltissimo e che avrei tanto voluto incontrare ai tempi di Destini: Giuseppe Paternò Raddusa, con il quale ho lavorato per cinque bellissimi anni nello scrivere format, storie, progetti per imprese nella mia nuova veste di produttore di progetti di narrazione per le imprese.

Autore, regista, interprete. I perché delle tre professioni

Giuseppe Paternò Raddusa. Famiglia aristocratica catanese, una grande passione per le lettere. Cosa ti ha portato a farne un mestiere?

Il fatto che con i titoli non si campa più. Scherzo; non l’ho mai considerato completamente un mestiere tradizionale, forse perché ho sempre scritto, da quando avevo pochi anni. Non ho mai pensato alla scrittura come un impiego, non per snobismo, ma perché soffro della sindrome dell’impostore e poi finisce che uno si sente in colpa a prendere soldi per fare qualcosa che ama mentre fuori dalla porta ci sono panettieri, medici, operai, ragionieri e mille altre professionalità che magari non richiedono parole come “sogno” e “passione” ma sono annichilenti, complesse. In più il nostro paese, culturalmente, associa chi fa un lavoro intellettuale di qualsiasi tipo a valori come la superficialità, la gigioneria e il parassitismo, aspetti che a volte sono veri ma la realtà è che la scrittura è difficile, ha bisogno di fatica e di sudore, se vuoi farla bene. Certo non sarà mai come spaccare pietre, ma non è sempre un pranzo di gala.

Autore, regista, interprete. Ti va di definire il profondo legame tra queste figure e se secondo te, si può fare a meno di una di esse?

Impossibile fare a meno degli autori e degli interpreti; si lamenteranno sempre della loro pochezza infinita, per citare Barbara Alberti, ma in fondo sono il motore di tutto. Lo stesso vale per i registi, sia di prodotti tradizionali, basati sull’immagine, che per quelli dei podcast: una figura non ancora istituzionalizzata a dovere, a torto. C’è bisogno di una visione di insieme, di una direzione complessiva, anche se il focus è solo su quello che ascoltiamo.

Hai deciso di vivere di scrittura, hai lasciato un impiego come autore in un’azienda che sviluppa contenuti, per abbracciare progetti artistici importanti. Quale consapevolezza guida questa tua scelta?

La consapevolezza di fare una follia, forse. Non so ancora, non me ne pento, non in questo momento. Devo ammettere che ogni progetto per cui ti chiedono di scrivere qualcosa perché ti apprezzano è artistico e importante, oltre che gratificante.

Tu sei un grande autore di format di podcast di successo. Hai scritto “scemi da un matrimonio”, “i ragazzi si fanno male” e tantissimi episodi di “destini incrociati” e “demoni urbani”. Cosa vuoi dire a tutti coloro che ritengono, magari venendo da un percorso attoriale o da voce della pubblicità, di potersi avvicinare al mondo della scrittura per fare, che ne so, un podcast?

È il momento migliore, ma anche il più rischioso – ho notato che molti influencer, che arrivano dal mondo del digital, che hanno lavorato molto con il video, adesso hanno deciso di transigere al podcast. Perché ne hanno compreso le potenzialità e anche una complessità produttiva più digeribile. Non ho nulla contro gli influencer, anzi, ma hanno concepito un mondo “nuovo” e saturo di immagini cui guardo con scetticismo, se applicato al podcast. Queste persone hanno la possibilità di fare grandi numeri anche con l’audio, e di dettare nuovi trend che rischiano di “ombreggiare” quanto di buono ha fatto il podcast finora, ovvero garantire e suggerire fruizioni stimolanti in maniera diversa, rispetto all’ordinario. Chiunque voglia scrivere un podcast, anche venendo dalla pubblicità o da un accademia di recitazione, può farlo; ma deve capire che si tratta di uno strumento rigoroso, coi suoi crismi e le sue liturgie, che va studiato in ogni dettaglio e che non si può avvicinare solo perché “è veloce” e “costa meno”. Il rischio di sfornare un sovrappiù di prodotti a scapito della qualità che vengono realizzati per puro sfogo egotico è dietro l’angolo e ad accusare il colpo potrebbero essere quelli che nei podcast ci credono sul serio, da sempre.

GliAscoltabili. È bello vedere il frutto di tanti errori!

Giuseppe Paternò Raddusa rappresenta un post it attaccato alla mia testa che mi dice che fare l’autore è un mestiere che ti succhia l’anima, che richiede preparazione, che esige pensiero laterale ma anche una ferrea organizzazione.

Con Giuseppe, oltre agli altri, abbiamo fondato GliAscoltabili. Un’idea che mi è venuta all’indomani di Destini Incrociati, perché un racconto figo non può andare in onda e sparire dai radar. Un racconto figo è fatto per restare, per essere ascoltato on demand, insomma è un podcast.

Gli Ascoltabili sono la dimostrazione che, dopo la parte naïf, l’entusiasmo, le idee, ci vuole anche il metodo, la produzione, la lungimiranza di guardare oltre se stessi, il proprio microfono e la propria bella voce. Altrimenti è solo un tentativo di chi pensa che ce la potrebbe fare ma… non ne vale la pena.

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